Paragrafo 4: Normativa giuslavoristica e Contenziosi
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Rapporto di lavoro
Nei precedenti articoli abbiamo visto che lo Smartworking è fondamentalmente basato sull’accordo delle parti, nella logica del rapporto fiduciario tra i contraenti, Datore di lavoro e lavoratore dipendente. Non conta l’orario di lavoro, sia pure nei limiti totali del monte ore previsto dal CCNL, conta il raggiungimento degli obbiettivi posti, ed il risultato.
Il potere datoriale si estrinseca nella definizione degli obbiettivi stessi, loro definizione temporale e nella individuazione e acquisizione degli strumenti informatici e non, necessari al loro raggiungimento. L’informativa scaturente dagli accordi tra le parti, elemento integrale ed indispensabile per la corretta costituzione del rapporto lavorativo di Smartworking, dovrà contenere la chiara individuazione degli obbiettivi e loro tempificazione, cui collegare anche gli aspetti economici, eventuali premi, rimborsi spese con i giustificativi, l’individuazione degli strumenti messi a disposizione, loro regole di utilizzo ai fini della Privacy ed ai fini della SSL, (questo con il coinvolgimento dell’RLS aziendale), ed i profili disciplinari.
Deve essere chiaramente definito il diritto alla disconnessione, per evitare sovrapposizioni e commistioni tra l’ambito lavorativo e quello famigliare.
Bisogna tuttavia chiarire un equivoco potenzialmente foriero di problemi. Di abitudine si utilizzano indifferentemente i termini “smartworking” o “lavoro agile” con riferimento alla tipologia di contratto di lavoro riconosciuto dalla L. 81/17, ma ciò non è corretto. Lo smartworking come inteso in letteratura richiama un approccio innovativo dell’organizzazione del lavoro in cui al lavoratore è riconosciuta autonomia e flessibilità riguardo ai luoghi, tempi e strumenti di lavoro, responsabilizzandolo rispetto ai risultati, a cui viene parametrata la retribuzione. Le tecnologie digitali facilitano e rendono possibile lo smartworking, ma non ne costituiscono un elemento essenziale, visto che tale modalità si estrinseca in un’organizzazione dei tempi, degli spazi e degli strumenti di lavoro più flessibile, e richiede una modifica dei comportamenti dei lavoratori e del management, tradizionalmente fondato sul controllo degli adempimenti. Lo smartworking, così inteso si ritrova soltanto in qualche contratto collettivo aziendale, ma non ha trovato spazio in alcuna normativa e sicuramente non nella Legge 81/17.
Il termine “lavoro agile” lo troviamo nella specifica disciplina organica in materia, artt. 18-23 della L. 81/17, ed è lì che va cercata la sua definizione. Art. 18: per “lavoro agile” si intende la “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, nella quale “La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”, con lo scopo dichiarato di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Giusta la definizione di legge, il “lavoro agile” non rientra in una tipologia contrattuale, ma costituisce una forma organizzativa nella quale il dipendente gode di flessibilità spazio-temporale, da decidersi di accordo con il datore e da formalizzare, anche riguardo all’esercizio dei poteri datoriali e disciplinari, in un patto parallelo al contratto, il c.d. patto di lavoro agile. Tale flessibilità, vede il lavoratore maggiormente responsabilizzato e “autonomo”, ma non parametra la prestazione al tempo di lavoro, da cui la necessità di organizzare la prestazione per “fasi, cicli e obiettivi”. Anche qui, l’uso della tecnologia è solo “possibile” ma non indispensabile, e viene spesso utilizzata al punto da far combaciare il lavoro agile con il telelavoro c.d. alternato.
Il parametro giuridico per la valutazione del rapporto di “lavoro agile” è quindi esclusivamente dettato dalla Legge 81/17, con tutto quanto ne consegue come evidenziato nei precedenti contributi.
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Lo Smartworking nell’emergenza COVID 19
Nell’emergenza COVID il legislatore ha promosso il “lavoro agile” da remoto quale soluzione idonea a bilanciare la tutela della salute pubblica e dei lavoratori con la produttività delle imprese e del Paese. Tanto nei D.L. quanto nei D.P.C.M. (questi ultimi di contestabile liceità costituzionale, ma, almeno per il momento, accettati e applicati in assenza di una pronuncia della Corte Costituzionale) troviamo molteplici disposizioni dedicate al lavoro agile, applicabili su tutto il territorio nazionale, e con particolare enfasi nel settore pubblico, al punto da individuarlo come “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”.
Si è rapidamente passati dal promuovere o favorire il “lavoro agile” al raccomandarne l’adozione quale misura prevenzionistica generalizzata per le attività svolgibili da “remoto”, e, per favorirne l’adozione, si è provveduto a semplificarne l’accesso al datore di lavoro, per cui basta un suo atto unilaterale e una semplice comunicazione telematica al Ministero del lavoro. E’ evidente che tale procedura, di suo abnorme rispetto ai disposti della L. 81/17, viene giustificata dallo “Stato di emergenza” ed è destinata a rientrare non appena il COVID 19 sarà stato debellato, poiché questo profilo di “lavoro agile” come promosso dal legislatore dell’emergenza, non corrisponde né allo smartworking né al “lavoro agile” di cui alla L. 81/17, anche se quest’ultima viene richiamata dalle disposizioni “pandemiche”.
Nel “lavoro agile” dell’emergenza, infatti, non vi sono elementi di flessibilità spazio-temporale, attesa la quarantena e la limitazione degli accessi alle aziende. Il luogo di lavoro ha quasi sempre finito per coincidere con il domicilio del lavoratore e neppure è stato possibile programmare rientri in azienda, così da realizzare l’alternanza del “lavoro agile”. Non solo, nella prassi si è mantenuta la scansione del lavoro in ufficio, al punto che spesso è stata lamentata la irreperibilità dei lavoratori “remotizzati”.
In sintesi, in questa fase emergenziale il lavoro agile da strumento dinamico di incremento della competitività e di conciliazione vita-lavoro si è trasformato in presidio prevenzionistico e di proseguimento delle attività in logica di “protezione e prevenzione” dei lavoratori dal rischio COVID 19, con tutte le naturali inevitabili conseguenze negative.
La questione è di tale rilevanza che anche nella P.A. abbiamo assistito ad uno stravolgimento della norma, con una applicazione indiscriminata e non correttamente gestita, al punto che un giuslavorista come il Prof. Pietro Ichino ha dichiarato inaccettabile che “… ancora oggi il Ministero non sia in grado di dire con precisione quali amministrazioni sono attrezzate per l’accessibilità dei propri data-base, quali e quante sono le funzioni che effettivamente già oggi possono essere svolte da remoto, quanti dipendenti pubblici possiedono l’attrezzatura e la connessione necessarie. Nella maggior parte dei casi quello che al Ministero della Funzione Pubblica chiamano smartworking ha nascosto la pura e semplice sospensione dell’attività”.
L’anomalia è quindi riferibile al solo aspetto della Sicurezza e Salute sul lavoro. Se, infatti, il lavoro agile emergenziale è mirato a preservare la salute del lavoratore, in applicazione dell’art. 2087 c.c. esso assurge a una “misura” che “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” è necessaria “a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” e che, pertanto, deve essere adottata dal datore allo scopo di salvaguardare i dipendenti dal rischio del contagio da Covid-19.
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Contenzioso e giurisprudenza
La normativa sul “lavoro agile” è recente, e non ha ancora prodotto giurisprudenza, tranne che per gli aspetti emergenziali nella logica descritta nel paragrafo precedente. I[GC1] Magistrati aditi sono stati chiamati, sostanzialmente, a rispondere al quesito se sia configurabile un diritto al “lavoro agile” ai tempi del Coronavirus, visto che un simile diritto non è previsto in generale, atteso che, ai sensi della L. 81/2017, è possibile accedere al lavoro agile solamente mediante accordo tra le parti.
Tuttavia con l’art. 39 del Decreto “cura Italia”, il legislatore ha fornito un indirizzo per bilanciare il diritto alla salute ex art. 32, comma 1, Cost., da una parte, e il diritto al lavoro, ex art. 4, comma 1, Cost., con la libertà di iniziativa economica privata, ex art. 41, comma 1, Cost., dall’altra. In forza di tale indirizzo, e fino alla cessazione dello stato di emergenza, vi è un diritto potestativo all’accesso al lavoro agile per i dipendenti disabili o per quei lavoratori che abbiano nel proprio nucleo familiare un disabile nelle medesime condizioni, purché la loro mansione sia compatibile con il lavoro agile.
In questi casi, verificata la “fattibilità” del lavoro agile in relazione alla prestazione del lavoratore, il datore di lavoro deve renderlo operativo ed applicabile alla fattispecie. Per “fattibilità” si intende che non ricorrano congiuntamente le due condizioni ostative, ovvero: a) le mansioni del lavoratore, per loro natura, possano essere svolte solamente presso la sede aziendale; b) le mansioni del lavoratore risultino essenziali affinché l’attività produttiva possa proseguire durante lo stato di emergenza.
Giusto quanto evidenziato sopra, le poche pronunce giudiziarie sono state sinora formulate in sede di procedimento cautelare, avendo da decidere se le modalità di “lavoro agile” fossero o meno da adottare nel caso specifico.
Tribunale di Mantova. Con decreto del 26/06/2020, emesso in sede di procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., il Tribunale di Mantova ha rigettato l’istanza di un dipendente di una multinazionale dei parcheggi che aveva richiesto la prestazione in smartworking ex art. 90 del Decreto Legge n. 34/2020.
I giudici hanno confermato la decisione del datore di lavoro sulla scorta del presupposto che nel caso di specie, le mansioni svolte dal lavoratore richiedono di necessità una sua presenza in azienda ed è responsabile della sicurezza dei lavoratori.
Tribunale di Grosseto. Un impiegato di una società operante nel settore della fornitura di energia elettrica e gas, addetto alla gestione del contenzioso in backoffice, presentava richiesta alla società datrice di svolgere l’attività in smartworking. L’istanza era motivata non solo dalla persistenza della situazione emergenziale ma anche dalle certificate condizioni di salute del dipendente, invalido al 60%, perché affetto da una grave patologia polmonare. La società datrice rigetta la richiesta del lavoratore, prospettandogli invece il ricorso alle ferie “anticipate”, e sul rifiuto il lavoratore ricorre in via d’urgenza al Giudice del lavoro, al fine di sentir condannare la convenuta ad adibirlo al lavoro agile, deducendo come tutti i propri colleghi di reparto vi fossero stati collocati e come egli, a causa della sua invalidità, avrebbe dovuto godere di priorità nell’adibizione al lavoro da remoto.
La società datrice resiste adducendo difficoltà organizzative e per i costi di predisposizione dei mezzi per il suo svolgimento, evidenziando inoltre che questi, al momento della decisione riguardante il suo reparto, era assente per malattia. Il Giudice accoglie il ricorso del lavoratore, ravvisando un trattamento discriminatorio nell’aver la società datrice escluso dal lavoro agile, nel reparto de quo, il solo ricorrente, il quale, peraltro, avrebbe dovuto esservi posto con priorità rispetto ai colleghi a causa delle sue condizioni di salute. Il Magistrato non ritenne praticabile neppure l’opzione sulle ferie avendo il dipendente, su invito dell’azienda e in ragione dell’emergenza, già consumato le ferie maturate, laddove la normativa emergenziale raccomandava di promuovere il lavoro agile, se possibile.
Il Tribunale di Grosseto, dunque, ha accolto la domanda del lavoratore proprio perché nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva fornito prova di non poter dar seguito alla istanza di lavoro agile, che avrebbe dovuto porre in essere in ragione delle mansioni del dipendente le cui prestazioni potevano avvenire in modalità telematica, trattandosi di mansioni di back office, al punto che aveva adottato tale soluzione organizzativa per tutti i colleghi di reparto, così rendendo manifesta l’irragionevolezza del rigetto dell’istanza.
Tribunale di Bologna. Una impiegata, addetta al settore fiscale, invalida al 60% ed avente nel proprio nucleo familiare una figlia disabile convivente, ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/1992, avanzava richiesta alla società datrice di essere collocata in smartworking per il periodo emergenziale, richiesta che, tuttavia, veniva rigettata. A seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c., il Tribunale accoglieva la domanda della dipendente, evidenziando non solo come per la normativa emergenziale fosse “raccomandato o imposto” il lavoro agile, ma anche come la lavoratrice avesse un vero e proprio diritto alla remotizzazione, la quale era compatibile con le proprie mansioni.
Tirando le somme, non è stato riconosciuto un diritto al lavoro agile neppure dalla normativa emergenziale, la quale, prevedendo l’atto unilaterale del datore di lavoro, ha mantenuto la scelta del lavoro agile integralmente nel perimetro del potere organizzativo dell’Azienda. Va poi ricordato che, ex art. 30, comma 1, L. 183/2010, il controllo giudiziale delle scelte datoriali è limitato a un sindacato di legittimità e non di merito.